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domenica 28 novembre 2010

Daniel Dennett e la storia del pandemonio neuronale

Lo so, lo so che non vi sentite delle "scimmie tecno-digitali", ma d'altronde da lì veniamo da un punto di vista evolutivo e non dobbiamo vergognarcene più di tanto a patto di essere il più possibile critici e consapevoli su ciò che facciamo o che altri ci inducono a fare.
Come diceva Desmond Morris dopotutto siamo delle "scimmie nude" , ma chiaramente su questo substrato comportamentale da "primati" si è innestata l'evoluzione culturale e tutto ciò che ne è conseguito (vedi anche ad es. Luigi Cavalli Sforza, 2004).
Vi propongo adesso un video del filosofo Daniel Dennett di qualche anno fa sulla coscienza (ma la sua visione sul tema non è cambiata molto) che a sua volta ha proposto su Facebook l'amica Giovanna Di Giorgio, che pertanto ringrazio dello "stimolo" all'approfondimento.
E' per fortuna sottotitolato anche in italiano per cui basta che selezioniate la lingua in basso a sinistra nell'apposita finestra.

Il "Dennett pensiero" che emerge da questo video provo a sintetizzarlo nelle seguenti proposizioni:

1. Ognuno di noi si ritiene un esperto della coscienza per il fatto di essere un individuo pensante;
2. In realtà noi esprimiamo delle mere opinioni sulla coscienza come su altri argomenti, come ad es. il cambiamento climatico, senza essere degli esperti;
3. La nostra coscienza non è nient'altro che il risultato dell'interazione di "orde di neuroni", per la precisione 100 miliardi di cellule neuronali;
4. Vi è una perfetta identità fra stati neuronali e stati mentali;
5. Non ci sono cause o spiegazioni della coscienza che non siano squisitamente naturali e biologiche;
6. Non siamo coscienti di come il cervello percepisce la realtà esterna, i cui "dati" vengono "aggiustati" e previsti in maniera "bayesiana" e automatica (vedi i vari esempi di percezione delle immagini);
7. Non esiste un centro di comando all'interno del cervello che "dà ordini" a tutto il resto (negazione del cosiddetto "teatro cartesiano", detto anche "materialismo cartesiano");
8. Esiste tutt'al più una specializzazione funzionale delle aree del cervello (es. la specializzazione dei 2 emisferi cerebrali, la localizzazione delle funzioni soprattutto a breve termine della memoria nell'ippocampo ecc.).

Vediamo allora punto per punto in che modo e dove l'approccio di Dennett (che lui definisce eterofenomenologia) può essere considerato "riduzionista" attraverso le conseguenze di ogni assunto:

1. Questo punto mira ad escludere tout court il soggetto e la sua personale "teoria della mente", che potremmo definire "ingenua" o "folk psycology" (spiccatamente riduzionista) ;
2. Ne consegue che se il "soggetto non esperto" ha delle opinioni sulla coscienza e gli stati mentali, quindi esperienze soggettive di tali stati, tali esperienze non hanno alcun valore di cui la scienza debba tener conto. Quello che conta è l'osservazione "in terza persona" (spiccatamente riduzionista)
3. Il cosiddetto flusso di coscienza non è nient'altro che la dinamica dei miliardi di neuroni che compongono il cervello, ma non viene precisato quale tipo di dinamica (spiccatamente riduzionista);
4. Ne consegue che ad ogni stato mentale corrisponde sempre un unico ed identico stato cerebrale (configurazione neuronale), ossia che c'è una identità mente-cervello di tipo prevalentemente lineare e seriale, del tipo Turing-computazionale (riduzionista, adesione al funzionalismo computazionale);
5. Non ci sono cause extra-biologiche che originano la coscienza: si esclude, dunque, ogni metafisica della mente irriducibile alla fisica ed alla biologia del cervello (non riduzionista, ma "naturalista" ed anti-metafisico);
6. Il cervello ha dei meccanismi di funzionamento "a priori" che gli fanno percepire la realtà in una certa maniera (secondo certi "pattern") e questi meccanismi sono per noi quasi totalmente inconsci. Ne consegue una sorta di determinismo neurobiologico della percezione in cui la coscienza non interverrebbe quasi per nulla (riduzionista, "naturalista");
7. Non esiste un centro ed una periferia all'interno del cervello, ma è l'insieme delle "orde di neuroni" (il "pandemonio di homunculi dennettiano", cfr. Dennett 1991) che da' vita a pensieri e coscienza (non riduzionista, apertura alla scienza cognitiva postclassica ed al connessionismo);
8. Ci sono delle modularità del cervello associate alle varie funzioni mentali (non riduzionista, funzionalista, alcuni influssi della teoria computazional-rappresentazionale di Jerry Fodor).

In realtà Dennett non esclude del tutto la "psicologia del senso comune" o folk psycology, ma accetta implicitamente che "il fallimento della sopravvenienza degli stati mentali sugli stati computazionali comporti il divorzio fra la psicologia del senso comune, che è esternistica, e la psicologia scientifica, che è internistica (Paternoster, 2010)(l'internismo è una posizione in base alla quale il contenuto mentale viene considerato essenzialmente interno alla mente, mentre l'esternismo lo considera in parte determinato dall'ambiente).
Per Dennett, dunque, ci sono "due livelli di spiegazione, detti rispettivamente livello dei sistemi intenzionali (soggettivo e semantico) e livello del progetto (subpersonale e sintattico). Soltanto il funzionalismo computazionale è scientifico, ma questo non fa della psicologia del senso comune una teoria falsa, perché essa soddisfa criteri di adeguatezza quali coerenza interna e valore predittivo" (Paternoster, cit.).
In estrema sintesi, non viene negata la "realtà" del soggettivo, ma viene escluso che tale realtà possa essere oggetto di studio scientifico con teorie e modelli di tipo scientifico.
Ne consegue che per il nostro i "qualia" non esistono (ripeto, in senso scientifico) e che "nella versione dennettiana dell'eliminativismo si cerca di argomentare in favore dell'illusorietà della coscienza fenomenica combinando due strategie. Da un lato, Dennett riprende l'argomento comportamentistico, specificatamente wittgeinsteiniano, dell' impossibilità di riferirsi a stati privati: apparentemente noi parliamo come se avessimo stati privati di esperienza, ma un'attenta disamina di questo modo di parlare mostra come la supposta esistenza di tali stati non sia affatto un requisito necessario (comportamentismo logico, nda). Dall'altro lato, Dennett afferma che nel cervello non esiste un centro della coscienza, cioè un sistema centrale che coordina tutte le varie operazioni cognitive; esistono bensì una moltitudine di agenzie cognitive (Dennett li chiama anche "folletti" o "homunculi", nda) che operano in modo parallelo ed indipendente e l'impressione del controllo operato da un io cosciente scaturisce dal fatto che di volta in volta l'una o l'altra di tali agenzie guadagna l'accesso ai centri del linguaggio" (Paternoster, cit.).
Dunque, sarebbe l'emersione linguistica di questo "pandemonio neuronale" a dare l'impressione di un io cosciente e dei suoi qualia, che in realtà non ha una esistenza oggettiva e scientifica.
D'altronde non è chiaro per lo stesso Dennett come avvenga questa produzione linguistica, che dunque resta un grosso punto da chiarire se non si accetta la sopravvenienza degli stati "mentali" su quelli "computazionali" (di qualsiasi computazione si tratti).
Insomma, restano questi 100 miliardi di neuroni "indemoniati" che alla fine ce ne combinano di tutti i colori e per i quali non abbiamo una teoria soddisfacente che esprima come "diventino" l'insieme delle nostre esperienze, pensieri, parole.
Utilizzando la definizione di Ned Block che distingue una Coscienza-F (coscienza fenomenica, quella delle esperienze soggettive) ed una Coscienza-A (coscienza d'accesso, quella degli stati rappresentazionali e cognitivi, descrivibile in termini oggettivi ed in cui l'autocoscienza è una metarappresentazione ossia uno "stato mentale del secondo ordine" in cui riflettiamo su noi stessi), potremmo dire che Dennett non accetta nella maniera più assoluta l'esistenza della Coscienza-F e confida nel fatto che la scienza cognitiva riuscirà a spiegare la coscienza solo in termini di Coscienza-A.
Una buona visualizzazione grafica delle posizioni sullo studio della mente è quella di Francisco Varela nel suo saggio "Neurofonomenologia. Un rimedio metodologico al problema difficile" all'interno di "Neurofenomenologia: le scienze della mente e la sfida dell'esperienza cosciente", a cura di M. Cappuccio, che riporto di seguito:

Dennett in qualche modo ha una posizione "mediana" tra un approccio fenomenologico proposto dallo stesso Varela (in prima persona) e uno riduzionistico-eliminativista come quello ad esempio di Paul e Patricia Churchland o di Francis Crick  e di Cristof Koch (approccio in terza persona e eliminazione degli stati mentali e rappresentazionali che sono ridotti a stati cerebrali tout court).
Come dice lo stesso Dennett (1991), d'altronde:

"La mia spiegazione della coscienza è tutt'altro che completa. Si potrebbe perfino dire che è stato solo un inizio, ma è un inizio perché rompe l'incantesimo creato dalle idee che fanno sembrare impossibile una spiegazione della coscienza. Io non ho sostituito una teoria metaforica, il Teatro Cartesiano, con una teoria non metaforica (letterale, scientifica). Tutto quello che ho fatto, realmente, è stato di sostituire una famiglia di immagini e metafore con un'altra: ho rimpiazzato il Teatro, il Testimone, l'Autore Centrale, il Figmento con il Software, le Macchine Virtuali, le Versioni Molteplici, un Pandemonio di Homunculi. E' solo una guerra di metafore - potresti dire - ma le metafore non sono solo metafore, le metafore sono gli strumenti del pensiero. Nessuno può riflettere sulla coscienza senza di esse, così è importante equipaggiarsi con il migliore insieme disponibile di strumenti. Guarda che cosa abbiamo costruito con i nostri strumenti. Avresti mai potuto immaginarlo senza di essi?"


Adesso è però ormai il tempo di teorie che non parlino solo di "homunculi" e di "pandemoni", ma che cerchino di spiegare la fisica della mente e correlarla alla sua neurobiologia, sperando che si possa addivenire ad una spiegazione non solo della Coscienza-A, ma anche di quella F, cosa per altro di cui molti dubitano.


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venerdì 26 novembre 2010

Come scimmie "tecno-digitali"?

Nel precedente post ho discusso delle "menti vaganti" e della tendenza che abbiamo a non essere focalizzati nel presente come possibile conseguenza della apertura logica della nostra mente. Questo stato di cose si è ipotizzato che abbia una diretta conseguenza sui nostri stati di infelicità, ma anche di felicità e creatività.
Osservando, però, i comportamenti sia miei sia delle persone che conosco on e off line mi sembra però che questa tendenza a vagare della mente sia più che controbilanciata da una tendenza strutturale, forse ancora più forte, a porre in essere degli schemi comportamentali consolidati e delle strategie cognitive ricorrenti. 
Sto parlando delle abitudini comportamentali e dei modi di interagire in ambito sociale e soprattutto cybersociale.
Se è vero che la nostra mente "vaga" continuamente (da cui, come è stato affermato, l'inutile tentazione di realizzare una improbabile "macchina leggi-pensieri") è anche vero che i nostri comportamenti sono di frequente molto standardizzati e spesso prevedibili, quindi anche manipolabili. E' come se la mente da un lato se ne andasse per "conto suo" lasciandosi fluire per lo più inconsapevolmente o con una consapevolezza "arrendevole" a processi "inconsci" (dinamiche complesse neurobiologiche e "multi-codice") mentre dall'altro si stabilizzasse (anche qui più o meno consapevolmente) su schemi abbastanza rigidi di interazione con sè stessa e con il mondo esterno (in questo giocano un fattore importante anche i memi culturali e le credenze). Questi schemi/abitudini possono essere di varia natura e possono essere sia il frutto di una sorta di successo evolutivo nella loro pratica e quindi avere fruttato a chi li possiede una utilità pratica (immagino ad es. i ruoli sociali altrimenti detti "maschera sociale"), ma possono essere anche delle "patologie" come ad esempio la dipendenza dalla droga, dall' alcol, stati di ansia continua o frequente, "tic comportamentali" ecc.
Nel caso di strategie cognitive che potremmo definire di "collaudato successo" l'abitudine comportamentale potremmo immaginarla come una sorta di adattamento utilitaristico al sistema nel quale si interagisce e quindi ad una sorta di principio economico del "massimo risultato con il minimo sforzo" o del "minimo danno" (ad esempio non di rado è più facile "sedurre" se si vuole convincere un terzo di una certa cosa piuttosto che cercare di spiegargliela razionalmente, oppure è più facile fare la "pecora nel gregge" che lottare in prima persona per un diritto ecc.) , mentre altre abitudini e schemi potremmo immaginare che siano acquisiti per una sorta di inerzia a non fare diversamente e quindi a "pensare criticamente" (qui trovi un articolo interessante sul pensiero critico di Tim Van Gelder intitolato "How are critical thinking skills acquired? Five perspectives"), altri schemi ancora possono essere di natura genetica o piuttosto epigenetica.
Tra gli schemi comportamentali indotti ci sono sicuramente quelli che ci vedono "protagonisti" nell'uso delle tecnologie in prevalenza digitali. Ecco che la manipolazione dei vari strumenti di cui disponiamo (cellulari, iPad, smartphone, pc portatili, videogames ecc.) diventa una sorta di rito abitudinario quotidiano, che spesso si trasforma in schemi automatici (il "mi piace" di Facebook può essere un esempio, ma anche l'uso a volte "ossessivo-compulsivo" dei cellulari e dei videogiochi) all'interno di schemi di comunicazione pre-fissati dalle varie applicazioni tecnologiche.
Questo agire e pensare per "schemi prefissati" - anche nel senso procedurale imposto dalle tecnologie - può portare a situazioni se vogliamo "inimmaginabili" pochi anni fa (ad es. relazioni che finiscono con una comunicazione su Facebook o con un sms, relazioni meramente virtuali, forme di "solipsismo tecnologico" ecc.) e ci dovrebbe far riflettere in che misura nel nostro utilizzo quotidiano di queste tecnologie ci comportiamo in maniera non difforme da una sorta di "scimmie tecno-digitali", in cui il comportamento imitativo e abitudinario è prevalente su quello critico e consapevole ed in cui la mediazione della tecnologia finisce per essere un comodo schermo alle proprie responsabilità di esseri umani.
Tra l'altro le nostre abitudini sono, come ben sappiamo, ampiamente monitorate sul Web dove a comprova di ciò da poco é stato avviato un progetto fra Google e IN-Q-Tel, una società che fornisce informazioni "intelligenti" alla CIA : si chiama Recorded Future e, come dice il nome, attraverso un algoritmo con il quale "setaccia" la rete si propone di prevedere i nostri comportamenti futuri.


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venerdì 19 novembre 2010

Menti vaganti

Un recente articolo su Le Scienze online intitolato "La mente che vaga rende infelici" ha recensito uno studio di Matthew A. Killingsworth e Daniel T. Gilbert della Harvard University in cui sembrerebbe che ci sia una correlazione tra la tendenza della mente umana alla "divagazione" e l'infelicità.
Ben il 46,9% del tempo di veglia degli intervistati sarebbe stato impiegato a pensare a qualcosa di diverso rispetto a quello che stavano facendo e questo risultato è stato associato ad un rischio di infelicità nell'ipotesi che pensare al "qui e ora" dovrebbe essere sinonimo di soddisfazione, come quando ad esempio si fa l'amore.
Ci si potrebbe chiedere allora se la nostra "tendenza all'infelicità" non possa essere una conseguenza della struttura della mente, che per quanto tentiamo di "governare" quotidianamente nelle attività che compiamo alla fine sembrerebbe che faccia decisamente tutt'altro andandosene spesso e volentieri a "fantasticare" per i fatti suoi.
Ma quale è la struttura della mente? Esiste una struttura precisa e codificata? E che relazioni ci sono tra questa ipotetica struttura e la coscienza?
Il tema, come ben sappiamo, è dei più spinosi perché parlare di "struttura della mente" ci pone di fronte intanto ad un problema ancora molto dibattuto, ossia cosa é la mente e che rapporti ci sono fra mente e cervello.
Parlare di mente e cervello presuppone già una sorta di "divisione" a priori fra la componente neurobiologica, ossia il cervello, ed una componente che in genere definiamo come psichica e che non sembrerebbe essere completamente riducibile a quell'ammasso molle, detto anche "wetware" in analogia con l'hardware dei computers, che è il cervello.
In filosofia della mente il problema dell'identità o meno fra cervello e mente è una questione a dir poco cruciale e ci sono svariati approcci che vanno dal riduzionismo fisicalista più radicale (identità fra cervello e mente, inesistenza dei qualia o stati coscienti soggettivi e delle rappresentazioni mentali, come ad es. nel connessionismo di Patricia e Paul Churchland o di Avshalom C. Elitzur) a forme di fisicalismo (o materialismo)  che tentano di distaccarsi dal riduzionismo con ipotesi anche molto diverse come quelle all'interno del funzionalismo (es. funzionalismo computazionalista di Jerry Fodor che si basa sulla natura simbolica del mentale che sopravviene al substrato neurobiologico e che ammette la realtà dei qualia e delle rappresentazioni mentali) o del cosiddetto emergentismo (la mente è una proprietà emergente del cervello, come ad esempio nell'approccio neurofenomenologico di Francisco Varela) fino a forme di vero e proprio dualismo ontologico fra mente e cervello in cui si ritiene che i principi della fisica e della biologia non siano in grado di spiegare la mente e le sue proprietà (la realtà della mente sarebbe in questo caso del tutto metafisica).
Nell'articolo "The character of consciousness" del blog Conscious Entities, che recensisce l'omonimo ultimo libro di David Chalmers (la cui "extended mind" del 1998 scritta assieme ad Andy Clark è stata tradotta per la prima volta in Italia nell'ultimo numero di Micromega 7/2010), si parla dell'annoso problema dei "neural correlates of consciousness" (NCC) e l'autore del blog a mio parere fa un bell'esempio quando dice:

"While some simple correspondences between neural activity and specific one-off experiences have long been well evidenced,  I’m pessimistic myself about the possibility of NCCs in any general, useful form.  I doubt whether we would get all that much out of  a search for the alphabetic correlates of narrative, though we know that the alphabet is in some sense all you need, and the case of neurons and consciousness is surely no easier."


Le lettere dell'alfabeto sono i "mattoni elementari" del linguaggio con i quali si costruisce ogni tipo di espressione e di "narrativa", ma non possiamo desumere dai mattoni che tipo di edifici possano venir fuori essendo la loro combinazione imprevedibile in maniera intrinseca e radicale: ne può uscir fuori un libro di poesie stupendo o un racconto decisamente noioso (a proposito, quale è il correlato neurale di "noioso"?...). La ricerca puntuale dell'identità dei correlati neurali con gli stati mentali è un pò come (l'inutile) ricerca dei correlati alfabetici della narrativa: resta il fatto che quest'ultima è "intrinsecamente irriducibile" alle singole lettere.
Ecco perché il tentativo di trovare una forma di identità fra livello neurobiologico e livello mentale-cosciente è in realtà l'idea di una "forma di identità ingenua di una corrispondenza biunivoca fra i due livelli e bisognerebbe piuttosto concludere che ad un livello descritto da un linguaggio cognitivo simbolico (livello "mentale", nda) non corrispondono gli stessi stati sub-simbolici (neurobiologici, nda). Quello che succede nel cervello è incomparabilmente più complesso e perciò i correlati neurali non andrebbero visti come semplici costituenti delle produzioni simboliche, ma piuttosto come un insieme di risorse che si attivano in risposta agli stimoli dell'ambiente e ricostruiscono ogni volta in maniera diversa risposte immagazzinate che noi descriviamo attraverso un modello simbolico dietro il quale c'è un'attività complessa ed opaca di continua emergenza a livello neuronale. In altre parole, un concetto può essere richiamato da situazioni che corrispondono a correlati neurali legati a dinamiche molto diverse fra loro" (Licata, 2008).

Se accettiamo il paradigma, invece, della mente come sistema complesso ed emergente dal cervello nel quale dunque esisterebbe una forma di "organizzazione multi-codice" delle connessioni neurali (sub-simboliche e simboliche con relative logiche differenti e irriducibili), possiamo immaginare che la struttura della mente di cui parlavamo sia non solo sintattica e computazionale (si parla di computazione naturale e analogica), ma semantica e rappresentazionale con la capacità di tipo "poietica" di sempre nuovi significati.
Un modello che sembra essere fecondo in tal senso è quello dell'apertura logica (i sistemi logicamente aperti sono in generale quelli "metastabili" e "lontani dall'equilibrio grazie a processi energetici molto complessi di feedback non lineari che contrastano la tendenza all'aumento dell'entropia e in cui dunque la chiusura logica salta perchè l'informazione necessaria per descrivere il comportamento non è interamente disponibile all'osservatore (Licata, 2008)").

L'idea è quindi che il sistema cervello-mente si trovi in una sorta di continuo stato "stocastico" (in cui le attività cognitive sono intimamente accoppiate alla interazione con l'ambiente e con sé stesso in maniera probabilistica) e anche di "indeterminazione semantica" in quanto è sostanzialmente imprevedibile "descrivere con un modello dell'osservatore (vds. Licata, ib.) la complessità del comportamento del sistema osservato" (cosa penseremo fra un minuto? E come diremo domani una cosa che abbiamo studiato ora? Che parole useremo e che idee ci verranno?).

Ne conseguirebbe che la struttura della mente sarebbe per sua natura tendente alla divagazione di cui parlavamo all'inizio di questo post e che pertanto è l'elevato grado di apertura logica della mente umana che la rende in qualche modo "apparentemente illogica" e tendente a quello "stato di infelicità" che scaturirebbe dal non "essere focalizzata nel presente".


Ovviamente c'è un risvolto positivo della medaglia: la grande potenzialità creativa che non potremmo avere se non fossimo predisposti all'infelicità, ma anche alla felicità, dalla nostra complessa architettura mentale. Insomma, siamo tutti un pò delle "menti vaganti" e questo stato è di tipo profondamente neurobiologico, ma non è proprio tutto negativo quello che ne esce (o emerge) fuori.
L'importante, però, è forse fare attenzione alle cose che contano davvero e questo è tutto un altro problema e spesso le conseguenze non sono delle migliori.

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Letture consigliate:
Alfredo Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, La Terza 2010;
Ignazio Licata, La logica aperta della mente, Codice 2008.



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sabato 6 novembre 2010

In teoria non c'è differenza fra teoria e pratica. In pratica si.

Parto da questa famoso aforisma di Yogi Berra - un ex giocatore americano di baseball - per fare una breve riflessione sul rapporto fra pubblico e privato nell'era digitale e dei social network.
Non è un argomento "nuovo" e quindi non affronterò il tema inflazionato, ma mai abbastanza, della privacy. Invece, vorrei soffermarmi sul fenomeno imperante della "messa in scena" del privato sui social network e, in generale, sulle varie applicazioni del Web 2.0 dove ciascuno di noi non esita a raccontare storie e informazioni spesso strettamente personali e ad esporre la parte migliore di sé, non di rado "buonista" e "benpensante".
Lawrence Peter "Yogi" Berra
In genere, il "medium" favorisce un processo psicologico di osservazione emotiva e partecipativa e, come ci accade al cinema, siamo più propensi a versare "lacrime" che non nella realtà, dove spesso regna l'indifferenza se non il cinismo di cui noi tutti siamo parte integrante.
Per tornare al titolo del presente post, il digitale ha operato - amplificando un fenomeno già in atto con la televisione - la rappresentazione "oscena" del privato fino al dilagante fenomeno del "porno 2.0" e dei social network erotici e contestualmente una rappresentazione che definirei "teorica" di questo privato in quanto mediata e quindi rielaborata "ad hoc" per un uso "ludico" e "narcisistico".
Il privato, dunque, irrompe in rete, ma lo fa spesso in maniera "adulterata" e quindi in forma o troppo "sdolcinata" o troppo "hard", laddove la vita - quella fatta di carne e sangue - è invece molto diversa in pratica. La rete sembrerebbe, in tal senso, favorire quindi una rappresentazione "teorica" e "stigmatizzata" della realtà sociale ed individuale rispetto a come è "in pratica", facendo emergere "pentimenti""peccati" e "moralismi" in una forma poco o non del tutto aderente a quello che è ormai il sentire ed il vivere pratico della cosiddetta post-modernità.
E quindi tutti si stupiscono del "bunga bunga" e imprecano contro questo o quel politico che fa festini a luci rosse, senza però rendersi conto che in realtà anche i politici - come noi tutti - stanno "mettendo in scena" il privato, che è però quel privato "teorico" e "adulterato" di cui parlavo prima, funzionale né più né meno ad un uso di "marketing individuale".
Ancora una volta, dunque, il simulacro si confonde con l'originale tanto da non farci più comprendere quale sia l'uno e quale l'altro e tale scenario è sostanzialmente perfetto per tutto ciò che è comunicazione mediatica, sia essa televisiva che digitale sulla rete.
Si delinea, pertanto, una sorta di "schizofrenia da medium" in cui da un lato ci stupiamo di quello che vediamo e ci viene raccontato e dall'altro siamo noi stessi ad essere attori di questo processo "osceno".
Teoria e pratica sembrano coincidere quando la narrazione è mediata, ma nella pratica è tutto molto diverso e sfumato. E probabilmente per molti anche "inconfessabile".
Forse sarebbe il caso di focalizzarsi sulle azioni concrete che singolarmente poniamo in essere, ma qui poi si apre un altro "vaso di Pandora" oltre al problema delle reali possibilità di agire (le azioni che potremmo e dovremmo porre in essere) in maniera efficace.

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